Ora l’inverno del nostro scontento
è reso estate gloriosa da questo sole di York,
e tutte le nuvole che incombevano minacciose
sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo
dell’oceano. […]
Riccardo III,
William Shakespeare
Parlare de L’inverno del nostro scontento è veramente complicato.
Mi trovo qui davanti al pc con tante idee che mi svolazzano in testa ma le scarto tutte, a una a una, perché temo non possano aiutarmi a trasmettervi la grandezza di questo romanzo. A volte le parole sono inadeguate e credo che questa sia una di quelle volte.
John Steinbeck (Pulizer nel ’40 per Furore e Nobel per la letteratura nel ’62) è uno scrittore complesso e profondo. E’ considerato, assieme a Fitzgerald, Miller, Eliot, parte della cosiddetta generazione perduta. Vive l’America della prima metà del Novecento e scrive di tutto quello che gli succede intorno: l’immigrazione interna, l’emarginazione, le classi subalterne e la middle-class, la guerra.
Ne L’inverno del nostro scontento Steinbeck fa qualcosa che solo i grandi (uno fra tutti, Shakespeare) riescono a fare: prende un tema e lo rende universale. Il suo discorso sarà per sempre valido, per ogni epoca storica, per ogni situazione. In questo romanzo, Steinbeck, ci parla della società consumistica e di quanto poco valore assuma l’etica di fronte al denaro.
– TEMPO DI LETTURA 3 MINUTI –
L’inverno del nostro scontento | Trama
Ethan Hawley viene da una famiglia di balenieri.
La sua casa di Long Island è piena di vecchi cimeli di famiglia, oggetti preziosi, anche se lui non è ricco, probabilmente neppure benestante. Perché la sua famiglia è caduta in digrazia e ha perso tutto. La loro nave bruciata, tutte le loro fortune perdute.
Tutto questo però appartiene al passato. Adesso Ethan conduce una vita dignitosa facendo il commesso in un negozio (un negozio appartenuto alla sua famiglia e poi venduto). Ha una moglie e due figli e tutta la normalità che può tranquillamente collocarlo nella middle-class americana degli anni ’50-’60.
La vita di Ethan Hawley scorre tranquilla finché qualcuno non insinua in lui il dubbio, o meglio, il desiderio, di una rivalsa. Un gran signore senza soldi è un barbone scappa di bocca a Mary, sua moglie, durante un litigio; e non sarà l’unica a far notare a Ethan che il gran valore morale che porta il nome della sua famiglia è nulla adesso che valore morale e ricchezza non vanno più di paripasso.
Ethan è un uomo onesto che viene pian piano corrotto da ciò e da chi gli sta intorno: se per riacquistare il suo prestigio sociale deve riacquistare la sua ricchezza, allora deve necessariamente iniziare a tramare, proprio come tutti gli altri, a raggirare, a sopraffare.
L’inverno del nostro scontento| Temi
La morale viene corrotta, ma da cosa?
Ethan Hawley, all’inizio del romanzo, è un uomo dai fortissimi principi morali, resi ancora più incorruttibili dal fatto che lui li fa risalire alla grandezza del suo passato, della sua famiglia. Il suo buon nome.
Poi scopre che di questo buon nome non importa a nessuno e che tutti lo vedono come un fallito, uno che era ricco e rispettato e che adesso fa il commesso in un negozio che era suo, che ha dovuto vendere, e che adesso è di proprietà di un italiano, un immigrato.
I soldi, dunque, fanno il valore di una persona. Ma non è solo questo.
Assieme a tutte le dichiarazioni esplicite di noncuranza verso il valore dell’etica, il romanzo è disseminato di piccoli indizi che ci rimandano all’idea del mito americano del successo: se non hai successo, non sei nessuno. Sono gli anni ’50, la middle-class acquista elettrodomestici e automobili in quantità e con questo dimostra il proprio valore al mondo.
Ethan Hawley viene risucchiato da tutto questo: la sua morale si corrompe, inizia a partecipare alle trame e ai raggiri pur di riacquistare il suo status sociale.
Ma a quale prezzo? Alla fine del romanzo Ethan si guarda e non si riconosce più.
L’inverno del nostro scontento | Un romanzo universale?
Mentre leggevo questo libro il mio cuore sussultava a ogni riflessione a ogni cambiamento nelle opinioni di Ethan.
Mi sono sentita estremamente grata ed estremamente amareggiata per ciò che Steinbeck ha deciso di raccontare in questo libro.
Il mito del successo, purtroppo, non appartiene solo all’America degli anni ’50. Ce lo ritroviamo ancora qui fra i piedi, praticamente intonso, a rimandarci un’idea di noi stessi che non potrà mai piacerci: i nostri valori, le cose che riteniamo importanti, le cose che ci rendono presentabili al mondo sono niente se non abbiamo denaro sufficiente a renderle manifeste.
E a che serve essere buoni e onesti se poi non abbiamo soldi abbastanza per soddisfare qualche capriccio?
Ma soprattutto: tutti quanti sono disonesti, in fondo; tutti mentono, tutti approfittano delle situazioni, degli errori, delle informazioni, a proprio vantaggio. E allora perché non possiamo farlo anche noi?
Bello e profondo