In questa storia sono coinvolte tre persone: la sottoscritta, Angelo Branduardi e un poeta russo di inizio 900 di nome Sergej Aleksandrovič Esenin.
Non so se questa introduzione somigli più ad una barzelletta (ci sono una siciliana, un violinista e un russo…) o a una puntata di Blunotte (ma torniamo a quella sera del 1976…) e probabilmente non importa.
Ciò che importa è che vorrei parlarvi di una bellissima canzone e di come quella bellissima canzone sia in realtà un adattamento di una poesia russa del 1920.
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Sergej Esenin e Angelo Branduardi
Sono sempre stata molto affezionata ad Angelo Branduardi e alla sua opera. Non proprio una fan, non conosco molte delle sue canzoni, ma ammiro molto il personaggio, lo trovo colto, finissimo ma allo stesso tempo caldo, materno. Una delle sue canzoni che più amo è Confessioni di un malandrino.
È una lunghissima e struggente canzone in cui un poeta ripensa al suo paese d’origine, ai suoi genitori contadini che non possono capire quale sia ora il suo mondo, e alla sua infanzia. Trovo i versi bellissimi, pieni di significati e vagamente espressionisti nel loro rappresentare attraverso metafore visive e non gli stati d’animo del poeta.
Nonostante questa canzone mi piacesse così tanto, non mi ero mai posta il problema di chi fosse l’autore, dando per scontato che fosse proprio Branduardi.
Solo poco tempo fa e del tutto fortuitamente ho scoperto che il vero autore di quei versi è un poeta russo vissuto nei primi decenni del 900 di nome Sergej Esenin.
Il testo che Branduardi ha poi adattato per la sua canzone è quello di Confessioni di un teppista che Esenin scrisse nel 1920. Il testo della canzone è stato adattato dalla poesia di Esenin dallo slavista Renato Poggioli, mentre la musica è un originale di Branduardi.
Chi era Sergej Esenin?
Dal poco che ho letto intorno a Esenin, ne viene fuori un personaggio malinconico, sospeso fra le sue origini contadine e il mondo dei ricchi e dei facoltosi che inizia a frequentare non appena diventa famoso.
In quella poesia, Confessioni di un teppista, è presente proprio quello: un senso di inadeguatezza infinita per non essere più un contadino e per non essere del tutto e pienamente un intellettuale.
Nella poesia di Esenin la descrizione delle origini contadine, i paesaggi campestri, le abitudini che scandiscono mesi e stagioni sono ricorrenti e fu per questo che Esenin divenne un poeta molto popolare nel senso autentico della parola: gli intellettuali di regime gli giravano a largo proprio perché il regime, le sue poesie, le aveva messe al bando. Chi apprezzava le sue poesie stava più in giù e in questo forse Esenin ha compiuto un piccolo miracolo culturale: la poesia del popolo che non è, come in molti casi, la poesia prodotta e fruita da una élite ma che parla del popolo, ma è proprio una poesia popolare, sempre molto semplice seppur nella costruzione di metafore e rimandi, sempre comprensibile, genuina, a portata di mano.
Esenin si circondava di gente affatto interessata alla letteratura. Gli stavano intorno per bere insieme a lui, per divertirsi insieme a lui. Alcuni poeti russi di quel periodo, fra cui Majakovskij, parlano di lui con un senso di tristezza, come di una persona con un potenziale grandissimo e parzialmente inespresso che butta via la propria vita. Esenin era un alcolizzato e per un paio d’anni della sua vita girò il mondo insieme alla ballerina Isadora Duncan, esibito come un esotico marito-oggetto.
Nella sua violenza e irruenza Esenin criticò il regime sovietico che lo isolò e probabilmente l’uccise. Il suo corpo fu ritrovato impiccato al porta asciugamani di una stanza d’albergo il 27 dicembre del 1925. Le sue opere continuarono ad essere fuorilegge in Russia sino al 1966.
Confessioni di un teppista Sergej Esenin |
Confessioni di un malandrino Angelo Branduardi |
Non a tutti è dato cantare, Non a tutti è dato cadere Come una mela ai piedi altrui. È questa la più grande confessione Che possa fare un teppista.Io vado a bella posta spettinato, Col capo, come un lume a petrolio, sulle spalle. Mi piace rischiarare nelle tenebre Lo spoglio autunno delle vostre anime. Mi piace che i sassi dell’ingiuria Mi volino addosso come grandine Di eruttante bufera.Allora stringo solo con le mani più forte La bolla dondolante dei capelli. M’è così dolce allora ricordare Lo stagno erboso e il fioco stormire dell’alno, Che ho un padre e una madre lontani, Cui non importa di tutti i versi miei, Cui son caro come un campo e la carne, Come la pioggerella, Che a primavera fa soffici i verdi.Loro verrebbero a infilzarvi Con le forche per ogni vostro grido Scagliato contro me. Poveri, poveri genitori contadini! Siete di certo diventati brutti, Temete Iddio E le viscere palustri. Poteste almeno capire che vostro figlio in Russia è il miglior poeta!Non vi brinava il cuore Per la sua vita, Quando coi piedi nudi si bagnava Nelle pozze autunnali? Ora invece cammina in cilindro E scarpe di vernice.Ma vive ancora in lui l’antica foga Del monello campagnolo, Che ogni cosa vuol rimettere a posto. Ad ogni mucca sulle insegne di macelleria Egli manda un saluto di lontano.E incontrando in piazza i vetturini E ricordando l’odore di letame Dei campi natali, È pronto a reggere la coda a ogni cavallo, Come lo strascico d’un abito nuziale.Io amo la patria, Amo molto la patria! Anche se copre i suoi salici Rugginosa mestizia. Mi sono cari i grugni imbrattati dei maiali E nella quiete notturna la voce Risonante dei rospi.Io sono teneramente malato Dei ricordi d’infanzia, Sogno la bruma Delle umide sere d’aprile come per riscaldarsi Il nostro acero si è accoccolato Al rogo del tramonto. Quante volte mi sono arrampicato sugli rami a rubare le uova dai nodi dei corvi! È sempre lo stesso, anche ora, Con la sua cima verde? La sua corteccia è dura come allora?E tu, mio prediletto, Fedele cane pezzato?! Per la vecchiaia ora sei stridulo e cieco E vaghi nel cortile, Trascinando la coda penzolante, Senza più ricordare Dove sia la porta e dove la stalla.Come mi son care quelle birichinate, Quando ho rubato alla mamma un cantuccio di pane, Lo mordevamo insieme, uno alla volta, Senza lasciar cadere una briciola L’uno all’altro.Io non sono mutato. Non è mutato il mio cuore Come i fiordalisi nella segala, Fioriscono gli occhi nel viso. Stendendo stuoie dorate di versi, Sì, voglio dirvi una parola tenera. Buona notte! A tutti, buona notte!Più non tintinna nell’erba del crepuscolo La falce del tramonto. La sera ho tanta voglia di pisciare Dalla finestra mia contro la luna. Azzurra luce, luce tanto azzurra! In quest’azzurro anche il morir Non duole. Che importa Se ho l’aria d’un cinico Dal cui sedere penzola un fanale!Mio vecchio, bravo Pegaso spossato, M’occorre forse il tuo morbido trotto? Io son venuto come un maestro austero A decantare e celebrare i sorci. E la mia testa, simile a un agosto, S’effonde in vino di capelli ribelli.E voglio essere una gialla vela Per quel paese verso cui navighiamo. |
Mi piace spettinato camminare il capo sulle spalle come un lume e mi diverto a rischiarare il vostro autunno senza piume.Mi piace che mi grandini sul viso la fitta sassaiola dell’ingiuria, mi agguanto solo per sentirmi vivo al guscio della mia capigliatura.Ed in mente mi torna quello stagno che le canne e il muschio hanno sommerso ed i miei che non sanno di avere un figlio che compone versi; ma mi vogliono bene come ai campi alla pelle ed alla pioggia di stagione, raro sarà che chi mi offende scampi alle punte del forcone.Poveri genitori contadini, certo siete invecchiati e ancor temete il Signore del cielo e gli acquitrini, genitori che mai non capirete che oggi il vostro figliolo è diventato il primo tra i poeti del Paese e ora in scarpe verniciate e col cilindro in testa egli cammina.Ma sopravvive in lui la frenesia di un vecchio mariuolo di campagna e ad ogni insegna di macelleria la vacca si inchina sua compagna.E quando incontra un vetturino gli torna in mente il suo concio natale e vorrebbe la coda del ronzino regger come strascico nuziale.Voglio bene alla patria benchè afflitta di tronchi rugginosi m’è caro il grugno sporco dei suini e i rospi all’ombra sospirosi. Son malato di infanzia e di ricordi e di freschi crepuscoli d’Aprile, sembra quasi che l’acero si curvi per riscaldarsi e poi dormire.Dal nido di quell’albero, le uova per rubare, salivo fino in cima ma sarà la sua chioma sempre nuova e dura la sua scorza come prima; e tu mio caro amico vecchio cane, fioco e cieco ti ha reso la vecchiaia e giri a coda bassa nel cortile ignaro delle porte dei granai.Mi sono cari i miei furti di monello quando rubavo in casa un po’ di pane e si mangiava come due fratelli una briciola l’uomo ed una il cane. Io non sono cambiato, il cuore ed i pensieri son gli stessi, sul tappeto magnifico dei versi voglio dirvi qualcosa chge vi tocchi.Buona notte alla falce della luna sì cheta mentre l’aria si fa bruna, dalla finestra mia voglio gridare contro il disco della luna. La notte è così tersa, qui forse anche morire non fa male, che importa se il mio spirito è perverso e dal mio dorso penzola un fanale.O Pegaso decrepito e bonario, il tuo galoppo è ora senza scopo, giunsi come un maestro solitario e non canto e non celebro che i topi.Dalla mia testa come uva matura gocciola il folle vino delle chiome, voglio essere una gialla velatura gonfia verso un paese senza nome. |
Il titolo mi ha incuriosito perché Branduardi l’ho amato alla follia anche se ultimamente non l’ho più ascoltato. Mi è piaciuto molto l’adticolo e la comparazione e mi sa che ora vado a cercare il mio vinile di Angelo 😊
Penso le possa fare piacere leggere la mia versione della celebre poesia di Sergej Esenin:
Sergej Esenin
La confessione di un teppista
Non tutti sanno cantare,
Non tutti sanno come una mela
Cadere ai piedi altrui.
Questa è la più grande confessione
Che un teppista possa fare.
Io vado spettinato a bella posta,
La testa sulle spalle come lume a petrolio.
L’autunno sfrondato delle anime vostre
Mi piace nell’oscurità illuminare.
Mi piace quando le pietre delle ingiurie
Mi colpiscono, come grandine di bufera ruttante,
Io allora stringo più forte con le mani
Della mia chioma la vescica ondeggiante.
È così bello allora ricordare
Lo stagno coperto d’erba e la voce roca dell’ontano,
Là dove vivono mio padre e mia madre,
Che se ne fregano di ciò che scrive la mia mano,
Ai quali io sono caro come il campo e la carne,
Come la pioggia che in primavera rende soffice il prato.
Essi verrebbero a infilzarvi col forcone
Per ogni insulto che mi avete lanciato.
Poveri, poveri contadini!
Voi, certo, vi siete imbruttiti
E temete Dio e lo spirito palustre.
Oh, se voi solo capiste
Che vostro figlio in Russia
È il poeta più illustre!
Non si coprivano di brina i vostri cuori
Quando bagnava i piedi nudi nelle pozze autunnali?
Adesso egli cammina col cilindro
E costosi stivali.
Ma vive in lui lo stesso spirito scherzoso
Del campagnolo birichino.
A ogni mucca sull’insegna delle macellerie
Già da lontano lui fa un inchino.
E, incontrando i cocchieri sulla piazza,
Ricorda i campi e l’odore del letame,
Ed è pronto a reggere la coda di un cavallo,
Come la coda di un abito nuziale.
Io amo la patria.
Io amo molto la patria!
Benché coperta di tristezza come quercia rugginosa.
Mi piacciono i grugni sudici dei maiali
E il verso sonoro dei rospi nella notte silenziosa.
Sono dolcemente malato di ricordi dell’infanzia,
Sogno la nebbia e delle sere d’aprile ogni ora.
Il nostro acero si accovacciava
Per scaldarsi al fuoco dell’aurora.
Oh, quante uova dai nidi delle cornacchie
Io rubavo, arrampicandomi su di esso!
È sempre com’era, con la corona verde?
E la corteccia è dura ancora adesso?
E tu, mio caro,
Fedele cane pezzato?!
La vecchiaia ti ha reso ceco e brontolone,
Ti trascini nel cortile con la coda ciondoloni,
Col fiuto non trovi più la porta né la stalla.
O, come sono care tutte le scappatelle,
Come quando a mia madre una crosta di pane rubavo,
E insieme un morso ciascuno
Senza imbrogliare la mangiavamo.
Io sono quello di sempre.
Il mio cuore è sempre lo stesso.
Come nella segala i fiordalisi, fioriscono gli occhi come viole.
Stendendo di versi stuoie dorate,
Ho voglia di dirvi tenere parole.
Buona notte!
Buona notte a voi tutti!
Ha smesso di sonare nell’erba la falce dell’alba…
Oggi ho una gran voglia
Di pisciare sulla luna dalla finestra.
O luce azzurra, luce così azzurra!
In questo azzurro neanche morire è un dispiacere.
Che importa se sembro un cinico
Che si è messo una lanterna sul sedere!
Buon, vecchio, stremato Pegaso,
Ho forse bisogno dei tuoi soffici trotti?
Sono arrivato come severo maestro,
A decantare e glorificare i ratti.
Come agosto, la mia zucca versa
Il vino dei burrascosi capelli.
Voglio essere una vela gialla
Verso il paese dove navighiamo.
Novembre 1920
(Trad. Paolo Statuti)