Grazie ad una segnalazione di Virginia (coincidenza!) sulla mia pagina Facebook ho scoperto che lo scorso fine settimana si sarebbe tenuto Il faro in una stanza 2018, alla sua III edizione, festival letterario dedicato a Virginia Woolf.
La cosa che rendendeva questo festival meraviglioso ai miei occhi (oltre al fatto di essere dedicato a Virginia Woolf) è che è un festival di casa mia, organizzato dalla libraia di una bella libreria di Monza, la Virginia &Co. Mi sembrava tutto straordinario già solo per questo, poi ci sono stata e ho capito che la sua straordinarietà andava ben oltre.
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Il faro in una stanza 2018 si è tenuto presso la Biblioteca civica di Sesto, la “mia” biblioteca, quella che mi vede ogni sabato mattina preparare esami universitari o post per il blog.
Gli incontri si sono tenuti tutto il giorno di sabato e la domenica mattina e hanno visto avvicendarsi al microfono studiose e studiosi di Virginia Woolf.
La cosa straordinaria – l’ho scritto anche a loro – è stato che nonostante siano stati tutti bravissimi non sembrava affatto di stare fra alti accademici (quali erano) ma in un consesso di amici, di persone legate da un interesse e da un affetto comune: Virginia Woolf.
Ho assistito a tre interventi: quello introduttivo, in cui Flora De Giovanni e Gerardo Salvati hanno delineato il gruppo di Bloomsbury, la presentazione del libro narrativo-fotografico di Nino Strachey Rooms of their own e infine l’intervento di Nadia Fusini su Roger Fry e la sua importanza per la vita e la poetica di Virginia Woolf.
I Bloomsburys sono un gruppo di individui, è stato detto. Un gruppo di persone unite dal comune amore per la letteratura, per l’arte, ma più ancora dall’amore per la libertà di espressione individuale e dal rifiuto della morale vittoriana.
All’interno del gruppo di Bloomsbury ci sono personalità molto eterogenee: Virginia è una scrittrice, la sorella Vanessa una pittrice, Roger Fry è un critico d’arte, Leonard Woolf è un politologo, John Keynes un economista.
Durante gli interventi è stato messo in evidenza come il Bloomsbury group fosse unito da un comune atteggiamento verso la vita, verso l’arte e verso la tradizione. Una descrizione mi è rimasta in mente in merito a questo, quella che Gerardo Salvati ha fatto della vecchia casa di Virginia, la casa paterna – casa che abbandona alla morte del padre per trasferirsi, appunto, nel quartiere londinese di Bloomsbury – mettendo in evidenza il rigore vittoriano, i mobili neri, la tappezzeria scura.
La casa di Bloomsbury è tutto il contrario: le stanze vengono personalizzate con colori, quadri, mobili decorati. Tutto l’arredamento è una lunga narrazione di pensieri, ispirazioni, idee.
Il gruppo di Bloomsbury. Da sinistra a destra: Lady Ottoline Morrell, Maria Nys, Lytton Strachey, Duncan Grant e Vanessa Bell [Fonte: Wikimedia]
Durante la presentazione del libro di Nino Strachey gli oggetti che popolavano la casa di Virginia e degli altri membri del gruppo di Bloomsbury prendono vita.
Nino Strachey – nipote di Lytton Strachey, membro di Bloomsbury – ha raccolto in un libro foto e aneddoti sulla vita del gruppo e in particolare di Virginia Woolf, Eddie e Vita Sackville West.
Le loro case sono piene di oggetti, pareti, librerie che raccontano non solo Bloomsbury ma l’Inghilterra degli anni Venti in un continuo rimando fra l’individuale e il comunitario, l’espressione del singolo, che si fa portatrice di un’idea comune a tutti.
L’intervento di Nadia Fusini è stato bellissimo, come ogni volta. Non una lezione, un intervento accademico, ma un racconto, entusiasmante, coinvolgente.
Ha parlato di Roger Fry e dell’influenza che esercitò sul gusto nell’Inghilterra di quegli anni. Portò i post-impressionisti a Londra, in esposizione, quando forse era ancora troppo presto per il pubblico inglese.
Il post-impressionismo influenzò molto la poetica e il pensiero di Virginia e fu proprio Fry a permetterle di scoprire e comprendere artisti come Cezanne: niente è più armonioso, niente è più realistico, la descrizione del mondo deve essere frammentaria, ottenuta per sensazioni e pensieri giustapposti gli uni agli altri.
Il discorso conclusivo, affidato a Raffaella Musicò, ideatrice del festival, è stato indescrivibilmente bello. E’ stato commovente ed è stato una boccata d’aria.
Nel corso del festival è spesso venuto fuori che Bloomsbury era una élite e che il concetto di élite assume spesso una connotazione negativa, nella nostra società.
Raffaella ha invece voluto recuperare l’altro senso di élite, quello buono, quello che descrive un gruppo di persone straordinarie, brillanti, capaci di pensare cose non comuni, necessarie alla fisiologica evoluzione di una società civile.
Di quel tipo di élite abbiamo nostalgia e abbiamo bisogno, dice Raffaella. Proprio adesso, in un momento storico in cui il nostro presente è narrato con parole orribili da uomini grossolani, sedicenti politici.
Un altro concetto, a me particolarmente caro, viene fuori durante il suo discorso: il dubbio. Chi di voi mi segue da un po’ sa quanto spesso io mi ponga e vi ponga domande su quel che ci succede intorno e quanto spesso vi inviti a non accettare quelle verità che ci vengono date per assolute, scontate, banali.
Dobbiamo alimentare il dubbio, dobbiamo rimanere svegli, quando ci vorrebbero tutti dormienti.
DISCLAIM
- Questo post non è stato sponsorizzato dal festival Il faro in una stanza né dall’ordine monastico delle Adoratrici Perpetue della Santissima Virginia
Una volta vidi una mostra dedicata proprio al Bloomsbury e all’atmosfera creata da quel gruppo. Ne restai deliziata e cominciai a studiare il modo di fotografare di Cecil Beaton, così come il modo di scrivere di Virginia. Fu come riscoprirla in modo assoluto. La adoro.
Che esperienza bellissima davvero! Spero tanto che prima o poi capiti anche a me di poter partecipare a questo tipo di incontri che sono formativi e in qualche modo ti cambiano la vita!
Devo assolutamente mettere in lista almeno un libro di Virginia Woolf ed amo, adoro letteralmente, questo tipo di eventi. Eventi da cui te ne vai con spunti interessanti.