Questa socialità che ci spacciano per necessaria

disagio psicologico pandemia

Ogni sera i tg ci raccontano di ragazzi psicologicamente distrutti dalla pandemia. È la mancanza di socializzazione, dicono, la lontananza dai compagni di classe.

È orribile ed è triste che tanti adolescenti vivano un simile disagio psicologico, questa è la necessaria premessa a quanto sto per scrivere, ma percepisco una strana schizofrenia mediatica nel dare un peso drammatico forse eccessivo al disagio della mancata socialità, dimenticando puntualmente altri disagi, forse più profondi e radicati, per i quali avremmo davvero bisogno, a livello di comunità, di sostegno psicologico.

La notizia che vi do, per quanto riguarda lo psicodramma da socialità è questa: senza socialità si sopravvive.

 

 

Chi la socialità non ce l’ha avuta, al di là della pandemia, lo sa bene.

Quelli troppo intelligenti, o troppo scemi, o troppo brutti, o troppo strani, che per un motivo o per un altro sono stati esclusi da tutti i gruppi e da tutte le amicizie lo sanno bene. Ad un certo punto si volta l’angolo, si è adulti, e se si è stati molto fortunati quel senso di esclusione che si è provato per tutta la vita si trasforma in indipendenza, in auto sufficienza.

È il regalo più grande che dobbiamo a tutti quelli che, nella vita, ci hanno esclusi.

 



 

Agli “alternativi” della scuola, quelli con la maglietta di un gruppo metal stropicciata e puzzolente, quelli che parlavano di politica inanellando una serie di cazzate una dopo l’altra, per loro eravamo troppo infantili, o sfuggenti, parlavamo di politica anche noi,  ma non come loro, ci vestivamo strani anche noi, ma non come loro. E quindi fuori.

A quelli più normali, quelli con vestiti normali e idee normali, per i quali eravamo noiosi, complicati. Perché parlare di politica, a sedici anni, se puoi parlare del Grande Fratello? Anche lì, fuori.

A tutte le amiche  e gli amici del cuore, ai quali abbiamo voluto un gran bene e che ci hanno trattati con sufficienza, come strani panda da tutelare ma tenere a distanza.

 

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Ai cari colleghi del primo lavoro della nostra vita, per i quali eravamo nerd nevrotici da tenere a bada, ci parlavano alle spalle e poi si incasinavano e ripetevano gli stessi commenti anche in nostra presenza, imbarazzandosi come fossero nudi per strada.

A tutti loro dobbiamo la rivelazione che socializzare è bello, ma non necessario, che se la nostra vita interiore è appagante, allora non importa quanti aperitivi faremo o non faremo.

Ancora una volta si riduce tutto a normalità e anormalità, e se soffrire per la mancanza di amici, feste e chiacchiere è normale, allora chi riesce a farne tranquillamente a meno è strano, ha qualcosa che non va. E ancora una volta si decide di guardare solo alla manifestazione superficiale del disagio, perché è forse quella che fa meno paura, perché è forse anche quella più facile da capire e affrontare.

 

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Ciò che trovo vagamente allarmante è la mancanza di analisi, l’assertività nell’affermare che alla radice del disagio c’è certamente la mancanza di contatto umano.

Ma c’è tutta una categoria di persone, quelli che a quella mancanza di socialità è sopravvissuta, che ci dimostra che il disagio nasce da altro e che il contatto umano è forse un palliativo, qualcosa che aiuta a non pensare e a non sentire, ma non fa andare via il problema profondo (che ha probabilmente a che fare anche con la mancanza di risorse interiori).

Non voglio sminuire il dolore di nessuno, se un ragazzo sente di star male quel male è già reale ed è già necessario fare qualcosa a riguardo.

Quel che penso è che ce la stiamo raccontando male, che ci siamo persi nel romantico storytelling dell’adolescente immalinconito dalla mancanza di amicizie e amori, ci stiamo raccontando anche, di conseguenza, che quando tutto sarà finito e quell’adolescente potrà tornare al suo campetto di quartiere, il disagio sarà risolto, e via di nuovo tutti beati a sorridere.

 



 

Non penso sia così semplice, penso che il disagio psicologico sia una cosa seria e come tale andrebbe affrontato.

Avremmo bisogno di supporto, di indagini, di studi sulla nostra realtà emotiva, avremmo bisogno di qualcuno che ci dicesse che va bene star male, che non è sempre tutto bello e positivo e che sentirsi perduti, a volte, è fisiologico e lo sentiamo tutti.

E avremmo bisogno di mezzi, mezzi per poter raggiungere col supporto psicologico anche chi non può permetterselo o chi non crede sia importante.

Non credo saranno una partita di calcetto o una rimpatriata con gli amici a risolvere questo disagio, servono soldi da investire e una nuova consapevolezza sul disagio psicologico che purtroppo ancora non mi sembra abbiamo.

 

2 risposte a “Questa socialità che ci spacciano per necessaria”

  1. Mi sono imbattuta nel tuo blog – esteticamente tra i più belli che abbiano catturato la mia attenzione – per puro caso, mentre conducevo una ricerca su Google (di cui onestamente non ricordo più le ragioni). Ricordo con molto piacere le cose che non avevo intenzione di scoprire perché poi si sono rivelate le più belle e importanti della mia vita. Poi il senso di sorpresa ti cambia r rende una persona più appassionata e curiosa. Quindi aver scoperto Letteratura e Turpiloquio mi ha infuso queste stesse sensazioni, ma è soprattutto questo articolo la chicca. La descrizione è un capolavoro di onestà e coraggio – anche io sono stata il tuo stesso “tipo” di adolescente. Anche io ancora mi sento sola, con pochi amici, incapace di essere apprezzabile o anche solo onesta quel minimo per non far scappare nessuno o semplicemente il più motivata possibie da far restare quel qualcuno…Non ci riesco, anche se mi sforzo di essere positiva e trasmettere buone impressioni. Mi dico sempre che tutti quei libri che aspettano di essere letti da anni potrebbero tranquillamente (ed egregiamente) assolvere ai miei desideri di essere coccolata, stimata e voluta sinceramente bene, ma poi non me ne convinco e finisco nel loop tentatore dei social dove rimugino su tutto quello che hanno gli altri e io no. La terapia è la chiave, come mi sembra di capire dal tuo articolo, e comunque è la cosa più sana a cui possiamo sottoporci.
    Nell’attesa che la parola “sola” non mi pesi più, posso autoconvincermi almeno che “meglio soli che mal accompagnati”.

    1. elena spadafora dice: Rispondi

      Ciao Verena, grazie del commento. No, non credo sia la terapia la soluzione perché non trovo che ci sia nulla di “patologico” e “da curare” nello star bene da soli. Quel che propongo è esattamente di ribaltare questa visione. Credo sia molto più sano star con gli altri se e solo se ne abbiamo voglia che “aver bisogno” di stare con gli altri. Nella nostra società il rapporto con gli altri è narrato in un solo modo, si deve aver bisogno di stare con gli altri, altrimenti si è strani, si è soli, incompleti. Io non mi sento né strana, né sola, né incompleta, anzi sono molto orgogliosa della mia autosufficienza e come me molta altra gente. Quindi, partendo dal presupposto che questo dimostra che la socialità si può vivere in modi diversi dall’”aver bisogno”, mi chiedo se il disagio che stanno provando questi ragazzi derivi realmente dalla lontananza degli amici o se ci sono ragioni più profonde. Io credo ci siano ragioni più profonde: per quelle serve una terapia.

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