La guerra fra poveri alla quale Simone ha deciso di non partecipare

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Lo scorso 2 aprile un gruppo di 70 persone di etnia rom viene trasferito presso un centro di accoglienza del quartiere Torre Maura, periferia di Roma. La popolazione insorge, gli abitanti di Torre Maura quei rom, lì, non ce li vogliono neanche morti. Nella protesta un carico di pane, destinato alla struttura di accoglienza, viene gettato in terra e calpestato.

Si scopre presto che la popolazione è fomentata da gruppi di estrema destra, gli ormai immancabili Casa Pound e Forza Nuova, che se fino ad un anno fa si nascondevano come topi, da un anno a questa parte son venuti fuori dalle fogne in cui vivevano e ce li troviamo in giro per l’Italia a dire e fare cose. Tutto normale.

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Succede poi che un ragazzino, tale Simone, 15 anni, si svicola dalla banalissima e funzionale opposizione italiani/rom, bianchi/neri, onesti/poveri, giusti/sbagliati e dice nun me sta bene che no, nessuno rimane indietro.

Sarò banale e insopportabilmente romantica ma dentro quella frase io ci vedo un atto di rivoluzione.

Non da tutti è stato vissuto così, però.

Qualcuno ha deciso di fare le pulci alla sintassi del discorso di Simone, spostando l’attenzione dal contenuto al contenitore, dallo straordinario all’ordinario, dall’atto rivoluzionario al sussidiario di grammatica normativa che studiava mio nonno Nino al ginnasio, anno del Signore 1941.

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La lingua è un mezzo, non è una gabbia

Sarà deformazione professionale, scusate, ma io un preambolo sull’uso delle lingue, lo devo fare.

Quando entri per la prima volta in una classe di linguistica, italiana, generale o straniera che sia, ti dicono una cosa che ti fa cadere ogni certezza: dicono, proprio a te, fresco di liceo, con tutte le tue belle regole grammaticali stampate in testa (perché, scherzi? sei iscritto a lingue!) che le lingue sono organismi viventi, che cambiano, si evolvono, e che davanti l’evoluzione di una lingua non c’è purismo che tenga.

Riflettere sulla volatilità delle forme linguistiche e sull’inutilità delle grammatiche normative (se non nell’ottica di una sorta di archeologia linguistica) ti fa capire anche un’altra cosa: la lingua è solo un mezzo.

È lo straordinario mezzo col quale ci esprimiamo, è una convenzione fra parlanti di una comunità, è un organismo che si adatta e prende forme diverse a seconda dell’occasione d’uso, dell’età, del genere, dell’estrazione sociale del parlante.

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Elena Stancanelli è una scrittrice italiana.

Non ha senso farsi ingabbiare da una lingua. La lingua è a nostro servizio, non siamo noi a servire lei.

La cosa veramente importante è comunicare, è farsi capire, è riuscire a trasmettere all’altro non solo i pensieri elementari ma anche tutte le sfumature, i concetti complessi, le sensazioni fugaci. Qualsiasi tipo di lingua assolva a questo scopo è una bellissima lingua.

Ne abbiamo parlato una domenica mattina su Instagram, credo che quelle storie siano ancora fra quelle in evidenza: tutti si angustiano per la scomparsa del congiuntivo, ma è un dispiacere estetico, non pratico. Perché non va bene che l’italiano perda il congiuntivo? gli chiedi. E loro ti rispondono perché si impoverisce la lingua.



Ma non è la forma del congiuntivo a rendere ricca la nostra lingua (esistono lingue ricchissime che il congiuntivo non ce l’hanno), è la funzione del congiuntivo a rendere ricca la nostra lingua. La forma, ancora una volta, è solo un mezzo.

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Abitanti di Torre Maura che protestano per l’arrivo dei rom

Apprendere per apprendere, senza saper di apprendere (parafrasando Pirandello)

Studiare, checché se ne dica ultimamente, è importantissimo. Ma se studiare, acquisire titoli, sciorinare un italiano perfetto servono solo all’autocompiacimento, solo a dire io ho un titolo di studio, allora è stata tutta fatica sprecata.

Studiare, conoscere più cose possibili, interessarci del circostante, ci permette di non essere mai indifesi di fronte le cose che ci succedono intorno.

La conoscenza è una corazza e mi pare che nonostante quel bellissimo nun me sta bene che no, Simone sia già molto più corazzato di molti di noi.

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Simone 🙂

Poi, diciamocelo, contestare la forma di quella frase equivale a presupporre che quel ragazzo non sappia esprimersi in altro modo, ed esclude che quel tipo di espressione sia stato utilizzato apposta, perché si adattava al contesto e allo scopo comunicativo.

Se davvero così fosse, Simone sarebbe una giovane promessa della comunicazione pubblica e i suoi detrattori una schiera di allocchi. Ma siamo solo nel campo delle ipotesi.




Attaccare la forma che Simone ha dato al suo bellissimo pensiero equivale a non aver capito nulla. Equivale a dire toh un asteroide sta per cadermi in testa, ma che mangio stasera per cena?

Equivale ad alimentare quella disonesta opposizione di popolo ed élite, perché noi siamo quelli che parlano bene e dicono cose giuste (che però non capisce nessuno) e loro sono solo dei bifolchi che non parlano e non pensano come si deve, che non possono capire come stanno le cose.

Mi pare invece che Simone abbia capito perfettamente. E non ha solo capito (perché in realtà capiscono molte più persone di quelle che immaginiamo) lui ha anche avuto il coraggio di agire.

Davanti quello stronzo che gli gridava sei uno su cento c’era solo lui, nessun intellettuale, nessuno scrittore, nessun politico, nessun sindacalista. C’era solo lui.

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La guerra fra poveri alla quale Simone ha deciso di non partecipare

I cittadini della periferia romana non vogliono i rom. Gli italiani non vogliono gli africani. Non ci sono soldi per aiutarli tutti, dicono, quindi, in case of doubt, prima gli italiani.

Ma cosa accadrebbe se tutti quelli che hanno bisogno di una casa, di un sussidio, di assistenza sanitaria, di un lavoro, si unissero?

Cosa accadrebbe se tutti i bisognosi (e uso questa parola in senso estremamente ampio, bisognosi di qualsiasi tipo di bisogno) lottassero tutti insieme per vedere riconosciuto il diritto di ciascun essere umano a vivere una vita dignitosa?




Se lo chiedeste a Salvini immagino gli verrebbero i sudori freddi, perché allora dovrebbe smetterla di tenere in ostaggio il prossimo e iniziare a lavorare veramente, come un politico vero, applicando intelligenza e strategia.

Però, tanto, i bisognosi, non si mettono tutti insieme, non ci lottano mica uno accanto all’altro.

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Fascisti a Torre Maura. Sì, anche quello col pigiama.

Sarebbero una forza dirompente e devastante, sarebbero in grado di cambiare tutto, ma non lo fanno, perché qualcuno gli ha detto che se si aiutano i rom non si aiutano gli italiani, se si trova lavoro a un africano resta a casa un italiano.

Dividi et impera, grida quello stivale sul pane che era il pranzo di qualcuno. E, come ci dice la bellissima vignetta di Mauro Biani sul Manifesto del 5 aprile, Simone quel pane l’ha raccolto – metaforicamente parlando, s’intende.

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Mauro Biani su Il manifesto del 5 aprile 2019

DISCLAIM

  • Tutte le immagini presenti in questo post sono state scaricate da Google immagini
  • Questo post è stato scritto ascoltando Erik Satie, Gymnopédies & Gnossiennes (1890)
  • Questo post non è stato sponsorizzato dagli Antipuristi della Lingua Italiana



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