Su La Repubblica dello scorso 19 marzo, leggo questo interessante articolo Gli autori italiani non sono da Premio Strega, a firma di Lara Crinò in cui si riportano le opinioni di alcuni critici nonché di Giovanni Solimine, presidente della Fondazione Bellonci (che organizza il Premio Strega).
A quanto pare, gli autori presentati per lo Strega, non sono all’altezza.
Non è la prima volta che leggo un giudizio di questo tipo e, devo essere sincera, mi trovo in linea generale piuttosto d’accordo.
Qualche tempo fa avevo infatti letto un articolo sulla qualità della letteratura italiana contemporeanea e sulla mancanza di aspirazione alla grandezza dei nostri autori: quando ne ho parlato con voi su Instagram alcuni di voi mi hanno citato nomi (primo fra tutti Mari) che sono da voi considerati dei grandi.
Ma vediamo quali temi vengono affrontati all’interno dell’articolo.
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Le scuole di scrittura e le leggi del mercato sembrano aver spremuto definitivamente l’ispirazione e il talento degli scrittori italiani (giovani e meno giovani)
Se da un lato si assiste ad un’omologazione dei toni, dei temi, degli schemi narrativi, dall’altro questa produzione in serie appare quasi necessaria, visti i tempi e le richieste del mercato editoriale.
Ne abbiamo spesso parlato qui e sui social: il mercato editoriale, che è un mercato che vende una merce sui generis come la cultura, sembra essersi completamente dimenticato di questa sua bella anomalia e sembra essersi lanciato completamente e ciecamente in una rincorsa all’accrescimento del capitale senza se e senza ma.
Da questa corsa folle alla pubblicazione da bestseller derivano numerosi problemi.
Solimine parla di:
“[…] testi acerbi , con una sovrabbondanza di schemi che fanno pensare ad autori da poco usciti da una scuola di scrittura e non sostenuti dal lavoro sul testo.
da Gli autori italiani non sono da Premio Strega di Lara Crinò, La Repubblica 19 marzo 2019
Le scuole di scrittura, Holden in primis, tendono a formare scrittori molto simili fra loro, con linguaggi simili, strutture narrative simili, molto sbilanciati verso una narrativa contemporanea e statunitense e poco consapevoli di ciò che hanno alle spalle (ossia della tradizione italiana).
Viene da chiedersi se le scuole di scrittura formino scientemente scrittori che vendono al posto di scrittori che scrivono bene.
Chiaramente lo scrivere bene è opinabile e soggettivo, ma credo che il problema sollevato da Solimine vada ben oltre il giudizio estetico: ci si preoccupa piuttosto della struttura portante. Su cosa poggiano questi scrittori, queste scritture, queste opere?
Tuttavia, sebbene le scuole di scrittura minino alla base le fondamenta della scrittura italiana contemporanea, anche le case editrici ci mettono del loro
Sia nella (poca) cura impiegata nella curatela di buoni testi che nella disperata voglia di vendere riposta in cattivi testi, l’editore si macchia di colpe pari, se non peggiori, di quelle delle scuole di scrittura.
Il lavoro dell’editore è necessario, fondamentale, imprescindibile per creare un libro. Di questo ne parleremo anche più avanti, in merito all’orribile pratica dell’autopubblicazione, ma adesso soffermiamoci sul lavoro editoriale, che in passato ha fatto dell’editoria italiana un’eccellenza internazionale.
La fretta di buttare sul mercato qualsiasi cosa possa aiutare a racimolare quattrini accorcia il necessariamente lungo lavoro di limatura e miglioramento: l’editore è un maieuta, è colui che tira fuori il David dal blocco di marmo.
Marmo pregiatissimo, per carità, e per tutto merito dell’autore, ma è l’editore a doverne tirare fuori il meglio, a far risaltare i pregi e a nascondere o dare coerenza ai difetti.
E se le buone opere vengono trascurate, le cattive opere vengono date in pasto a lettori bulimici e senza palato che leggono qualsiasi cosa sia prima in classifica.
Sono il primo difensore del diritto d’espressione di tutti i calciatori, i galeotti, le starlette, i finti naufraghi, i divi degli anni Settanta decaduti, ma come è possibile che ormai chiunque possa scrivere un libro?
Mi correggo, non chiunque. L’emergente, che non sai se ti farà vendere o meno non lo pubblichi, giusto per andare sul sicuro.
Invece il mafiosetto da quattro soldi, l’ex fotografo ricattatore che scrive di scadenti prestazioni sessuali da bordo del lavabo di un hotel, lui si che lo pubblichi, ti riempirà le tasche di soldi.
Sì, ma la tua dignità di editore?
Ed è proprio sulla grandissima sfiducia che molti di noi nutrono nei confronti delle scelte editoriali che verte l’ultimo punto di questo post: il grave problema dell’autopubblicazione
Fra i vari commenti che mi avete scritto sotto il post Instagram dedicato all’articolo, ne è arrivato uno di un’utente particolarmente infervorata che mi diceva che la speranza è l’autopubblicazione.
Quando le ho risposto che gli unici libri che leggo sono quelli passati dalle mani di un editore si è ancor di più infervorata, dicendomi che mi sto precludendo la lettura di bellissime opere.
Ne dubito, ma anche se fosse, la mia è più una scelta politica che estetica: mi è capitato di leggere (pochissimi) autopubblicati e li ho trovati tutti di una prosa orrendamente poco curata, ma magari sono stata sfigata io ed esistono centinaia di autopubblicati scritti bene che neanche Dante Alighieri.
La mia scelta, tuttavia, è come una dieta vegetariana: non mangio la carne (ovvero non leggo gli autopubblicati) non tanto perché la carne mi faccia schifo quanto perché non voglio contribuire a uccidere degli animali (ovvero degli editori).
Ma al-di-là (trattini inseriti consapevolmente per segnalare la netta separazione di “al”, “di” e “là” più volte contestatami) della mia dieta a base di libri pubblicati da editori, credo realmente che l’autopubblicazione sia un problema serio.
Mi viene detto: eh ma se gli editori pubblicano solo ciò che fa vendere, noi ci arrangiamo come possiamo e pubblichiamo in altro modo. Sbagliato. È come dire che dal momento che i politici ci hanno deluso allora chiunque, che politico non è, può andare in Parlamento.
Abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi l’esito fallimentare di questo tipo di ragionamento quindi, a tutti coloro che hanno perso la fiducia nel genere editore dico: non aggirare l’editore, che è una figura professionale insostituibile e necessaria, incazzati piuttosto, e pretendi che l’editore sia professionale e riesca a scegliere cosa pubblicare non solo in base ad una previsione di introiti ma soprattutto grazie alla cara vecchia buona lungimiranza, che tutti, in questo Paese, pare abbiano perso.
E a voi, editori, dico: pubblicate Corona che vi fa guadagnare oggi ma domani è carta straccia, che vergogna. Se pubblicaste il nuovo Pavese, magari oggi non vendereste granché, ma domani avreste l’onore di poter dire di esser stati voi ad aver regalato alla cultura italiana una straordinaria mente.
Tuttavia, tornando al punto, se penso a Pasolini, a Pavese, a Pratolini, a tutti i più grandi scrittori italiani del passato (vincitori di Strega o no) e poi mi guardo intorno, non trovo nessuna somiglianza con ciò che vedo.
DISCLAIM
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Io non penso che il Premio Strega venga sempre attribuito al migliore libro dell’anno, ma sono sempre curiosa di sapere chi sia il vincitore. Avevo iniziato a leggere tutti i Premi Strega dal primo anno in poi e ho visto una notevole differenza tra gli scrittori di un treno e quelli contemporanei.
Un articolo interessante che condivido. L’odierna editoria punta soprattutto al profitto economico e pubblica troppi scrittori omologati. Quanto all’auto-pubblicazione, non è la migliore soluzione, ma resta purtroppo l’ultima spiaggia per coloro che non hanno molte “conoscenze” e non si avvalgono della revisione di un editor!