Quando voi leggerete questo post sarà domenica 12 maggio, la Festa della mamma. Il manuale delle giovani blogger vorrebbe che si scrivesse qualcosa di interessante per ciascuna festa o ricorrenza, salvo che la suddetta festa o ricorrenza non abbia legami tematici con l’argomento di cui solitamente si scrive. Ma su amaranthinemess parliamo spesso di donne, quindi, eccoci qui.
Se dovessi parlarvi delle gioie della maternità, devo ammetterlo, probabilmente lascerei perdere: innanzi tutto, perché, non essendo madre, ne so davvero poco e in secondo luogo, perché le gioie della maternità spesso celano disagi indicibili e incomunicabili per la maggior parte delle donne.
Con questo non voglio dire che tutte le mamme sono infelici, affatto. Ci sono tante mamme felici che vivono bene la gravidanza e la maternità. Ciò di cui vorrei parlare è di quando invece non è così (e non è così molto più spesso di quanto crediamo).
– TEMPO DI LETTURA 3 MINUTI –
Le donne sono obbligate ad essere mamme felici
A quanto pare c’è un istinto, un’indole innata, una luce divina che ci illumina non appena uno spermatozoo tocca un nostro ovulo e da quel momento in poi ci trasformiamo negli esseri più buoni, amorevoli e comprensivi del mondo. O, quantomeno, questo è ciò che ci si aspetta da tutte noi.
Ma quando non è così? Quando ci si sente inadeguate, stanche, non abbastanza amorevoli, del tutto fuori luogo? Cosa succede quando non ci si sente madri? Quando non ci si riconosce affatto in quella descrizione angelica che il mondo dà della mamma?
Proprio la scorsa settimana ho partecipato ad un bellissimo aperitivo-presentazione dell’ultimo libro di Irene Di Caccamo, Il dio nella macchina da scrivere (edito La nave di Teseo, 2019), un romanzo ispirato alla vita di Anne Sexton.
Anne Sexton è una poetessa americana della prima metà del Novecento che ho scoperto da relativamente poco tempo e di cui so poco (proprio per questo ho subito colto l’occasione di comprare il libro e assistere alla presentazione).
Uno dei temi presenti nella poesia di Anne Sexton è proprio la maternità. Ma la mamma che Anne Sexton è, è una mamma cattiva, sbagliata, che si fa troppe domande e conosce davvero poche risposte.
Quando ho letto per la prima volta le righe che vi propongo qui di seguito, ciò che ho provato è stato sollievo:
I, who was never quite sure
about being a girl, needed another
life, another image to remind me.
And this was my worst guilt; you could not cure
or soothe it. I made you to find me.
Io, che non sono mai stata davvero sicura
riguardo all’essere una donna, ho avuto bisogno di un’altra
vita, un’altra immagine per ricordar-mi [per ricordare me stessa].
E questa è stata la mia colpa peggiore; tu non potevi curarla
o lenirla. Io ti ho fatta per trovarmi.
The Double Image in To Bedlam and Part Way Back (Manicomio e parziale ritorno), 1960
La mamma cattiva, la mamma egoista
La mamma che Anne Sexton ci descrive è una mamma egoista, una mamma che inspiegabilmente mette se stessa davanti ai propri figli.
Anne Sexton avverte un bisogno esistenziale (quello di trovarsi) e il mezzo col quale raggiungerlo è la maternità.
Quanto è sconvolgente sentire che non è la maternità stessa il bisogno esistenziale? Abbastanza.
Il sollievo da me provato alla lettura dei versi di Anne Sexton credo significhi che ho sentito di poter avere una via d’uscita, di poter essere – un giorno – anche un tipo di madre diversa dall’amorevole fatina che rinnega se stessa in nome della felicità dei figli – e poi, perché i miei figli dovrebbero esser felici del fatto che io mi annulli completamente?
Sono fermamente convinta che si consumerebbero molte meno tragedie (suicidi, infanticidi) se si desse alle madri la possibilità di alzare la mano e di dire non ce la faccio senza rischiare di venire etichettate come cattive madri, se si lasciasse indietro lo stereotipo della madre pefetta e si accettasse il fatto che le madri sono prima di tutto persone, individui, e che ciascun individuo vive in modo diverso le esperienze della vita – e che la maternità, per quanto splendida o schiacciante che sia, è pur sempre e solo una delle tante esperienze che potremo decidere di affrontare o non affrontare nella nostra vita.
Quest’idea della mamma martire che sacrifica tutta se stessa per la prole mi fa ripensare ad un’altra scrittrice meravigliosa: Michela Murgia
In Ave Mary (edito Einaudi, 2011) Michela Murgia ritraccia le origini di quest’asservimento al figlio nella figura della Madonna, la madre di tutte le madri.
Nel capitolo dal titolo Di madre ce n’è una sola, e piange, Murgia analizza due aspetti fondamentali del ruolo canonico che la società patriarcale e la Chiesa affibbiano alla donna: il primo è il dover essere madre, a prescindere dalla propria volontà.
La donna è naturalmente portata alla maternità e una donna che non è madre, se lo ha scelto, ha certamente qualcosa che non va, se le è capitato, è una poveretta.
Ma c’è un motivo per cui l’esistenza della donna, senza un figlio, non è compiuta. Scrive Murgia:
Partorire, ma soprattutto partorire nel dolore, diventa quindi per il genere femminile la condizione per stare dentro al discorso cristiano, secondo il quale la donna che per qualche ragione non avesse portato a compimento la sua missione procreatrice sarebbe divenuta un non senso teologico, perché l’assenza dell’atto generativo le avrebbe tolto la sola contropartita morale che il Creatore aveva stabilito per lei nell’economia delle cose umane. Chi non avesse partorito si sarebbe cioè sottratta alla punizione, conseguenza naturale della caduta, e avrebbe vissuto sulla terra come una specie di latitante.
Ave Mary, Michela Murgia, Einaudi (2011)
Poco più avanti, all’interno dello stesso capitolo, Murgia, citando un documento del 1988 a firma di Papa Giovanni Paolo II dal titolo Mulieris Dignitatem in cui il pontefice apparentemente prende le parti delle donne e ne difende le peculiarità, affronta un’altra caratteristica inevitabile della natura femminile: assistere e curare.
Queste peculiarità, tuttavia, riconfermano lo stereotipo, non ci liberano dalle catene, non ci restituiscono dignità, trovano solo nuove parole cortesi per dirci di stare al nostro posto.
L’enfasi sulla peculiarità del femminile servì a riconfermare la subordinazione sociale e familiare della donna, non più enunciata in nome di un’inferiorità di genere, ma fondata su una pretesa superiorità di ruolo spirituale. […]
Il discorso di Giovanni Paolo II ha però anche un altro risvolto, vagamente minaccioso sul piano spirituale: l’affermazione che il “genio femminile” consista in una naturale vocazione alla cura implica necessariamente che le donne non vi si possono sottrarre senza contraddire se stesse. La donna che non si conforma a questa lettura non disattende solo il disegno di Dio – preferendo ancora una volta Eva a Maria – ma tradisce la sua essenza più profonda, rivelandosi non all’altezza della propria natura.
Ave Mary, Michela Murgia, Einaudi (2011)
La donna è dunque madre, che lo voglia o no, non può negare la propria natura. E anche se madre non fosse, sarà comunque vista come la più adatta ad assistere e curare chiunque abbia bisogno di assistenza e cure.
Saremo sempre le madri di qualcuno, dunque, che lo vogliamo o no? Speriamo di no.
DISCLAIM
- Tutte le immagini presenti in questo post sono state scaricate da Google immagini, tranne se diversamente indicato
- Questo post non è stato sponsorizzato da nessuna delle scrittrici citate, vive o morte che siano
Un tema delicato che da non mamma affronto con i piedi di piombo. Ho trovato molto interessante e denso di verità il passaggio in cui si definisce madre cattiva quella che continua ad essere entità, donna, persona, con bisogni, desideri, aspettative, traguardi e sogni. Nella mia mente vorrei essere una madre forte, capace di essere presente ma di non arrendersi al ruolo genitoriale dimenticando di essere persona, dimenticando di cosa si vuole raggiungere. Spesso questo tipo di madre viene definita egoista. Io preferisco definirla una madre che da un ottimo esempio ai figli.
Sono diventata mamma solo da 8 settimane e ho ancora tutto da imparare sull’essere madre ma so con certezza che non sono e non sarò una mamma perfetta. Ma questo non vuol dire che io non sia comunque madre