Lungi da me voler diffondere dell’ottuso ottimismo: il Corona virus è una cosa seria e non c’è assolutamente nulla da sdrammatizzare, dobbiamo solo seguire le indicazioni di chi ci guida e non farci prendere dal panico.
In questo post vorrei tuttavia parlarvi di un effetto positivo (vogliamo chiamarlo così?) di questo periodo di isolamento forzato: è finalmente passato il messaggio che la tecnologia è un mezzo efficacissimo per facilitarci la vita e che se la usiamo non siamo per forza decerebrati che vanno appresso a uno schermo, ma semplicemente persone che approfittano dell’innovazione per vivere meglio.
In questi giorni sto beneficiando pienamente di quella benedizione che è lo smartworking, ossia – insieme ad una serie di altre cose – il lavoro da casa.
C’è da dire che ho la fortuna di avere un lavoro che me lo permette: faccio la Web designer, i miei strumenti del mestiere sono i programmi che ho sul pc, quindi con quelli e una buona connessione internet posso lavorare più o meno ovunque. Ma sto, con somma gioia, scoprendo anche le gioie di quello che rinominerò come smartstuding. Ve ne parlo in questo post.
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Al tempo del Corona virus siamo tutti studenti non frequentanti
Quando ormai quasi 3 anni fa decisi di iscrivermi nuovamente all’università (pur avendo già concluso il mio ciclo di studi e lavorando a tempo pieno) presi qualche informazione sulla fattibilità di una laurea magistrale presa da non frequentante.
Allora quasi tutte le persone alle quali mi rivolsi (docenti, segreteria, sportelli vari), mi assicurarono che per nessun corso c’era l’obbligo di frequenza e che quindi potevo andare tranquilla.
Purtroppo, una volta in ballo, mi sono resa conto che ciò che limita moltissimo le possibilità di una persona che non può frequentare le lezioni non è un obbligo di frequenza ma, banalmente, anche solo la forma mentis del docente che tiene il corso.
Molte volte vi ho già parlato della mia avversione per il docente universitario-cliché ossia quello con l’ego ipertrofico che si autocommisera per essere finito in mezzo a studenti sicuramente stupidi che hanno fin troppe pretese organizzative: l’unica cosa che crede debba fare per guadagnarsi uno stipendio è posare le sue regali chiappe su una sedia in cattedra e spargere prestigio.
Il docente universitario-cliché purtroppo non è solo un cliché, ne ho conosciuti molti personalmente. E posso assicurarvi che è il peggior tipo di professore con cui un non frequentante possa avere a che fare.
Il docente universitario-cliché non risponde alle mail, quando risponde risponde qualcosa di incomprensibile e in ogni caso pretende che qualsiasi tipo di comunicazione avvenga durante il suo orario di ricevimento per il quale, con buona probabilità, ci si deve prenotare recandosi in loco qualche giorno prima e iscrivendo il proprio nome su un brandello di foglio appeso su una bacheca di sughero.
No, non è il 1979, è il 2020.
Capite bene che per una che lavora lunedì-venerdì, 9-18, diventa abbastanza infattibile.
Ma lasciamo un attimo da parte i docenti del 1979: anche quelli che vivono nel presente spesso non sono d’aiuto
In un’epoca in cui produrre un contenuto e condividerlo online non è nulla di complicato né dispendioso in termini di tempo e energie, molti docenti sono ancora abbastanza restii a condividere slide, video, spiegazioni veicolate in X modi
A fronte di molti docenti che, c’è da dirlo, riescono a padroneggiare perfettamente piattaforme di condivisione e gruppi Facebook, ce ne sono tanti altri che, pur essendo molto disponibili sul piano umano, su quello tecnologico arrancano ancora.
E qui entrano in ballo Corona virus e isolamento forzato: l’Università è chiusa, i corsi devono comunque concludersi entro maggio altrimenti sessione d’esame e di laurea dovrebbero slittare. Che si fa?
Ci si attrezza e si ricorre agli strumenti che per tanto tempo abbiamo evitato.
L’Università statale di Milano – quella che frequento – dispone già di una piattaforma di condivisione, ma in questi giorni molti professori si stanno organizzando con registrazioni video delle lezioni e sessioni on-line.
Tutto questo, neanche a dirlo, mi riempie di gioia. Ma mi chiedo: perché non farlo sempre?
Il Rettore ha mandato una comunicazione a tutti gli studenti spiegando la situazione e raccontando tutte le misure che si stanno mettendo in campo per garantire uno svolgimento dei corsi. In quella mail scriveva, quasi con schifo la nostra non è un’università telematica.
Ora, d’accordissimo che una video-lezione non possa in nessun modo sostituire il contatto diretto docente-studente, ma se un’università tradizionale, con uno sforzo poi non troppo oneroso, potesse andare incontro a chi non può essere in aula, cosa ci sarebbe di male?
Quel che si perde uno studente non frequentante
Noi non frequentanti ci perdiamo gran parte del divertimento, c’è da dirlo.
Va bene, abbiamo i libri, abbiamo gli appunti che qualcuno ci ha prestato (o, più spesso, venduto), abbiamo le risorse online e sempre quell’ultima spiaggia del ricevimento, ma essere in aula è un’altra cosa.
Questo pomeriggio ho studiato con uno spirito diverso: non eravamo solo io e Chomsky a prenderci a testate sopra l’idea di grammatica universale, ma c’era anche il docente che sulla piattaforma di condivisione ha caricato la sua lezione e un documentario a supporto.
E c’è anche un forum, e io non ho resistito e ho fatto una domanda, e spero ce ne saranno tante altre di domande e di risposte e che quella fredda pagina aperta sullo schermo di un pc possa diventare un luogo di scambio.
D’altra parte, un’università condivisa è utile anche a chi, il più delle volte, può andare a lezione: nei gruppi Facebook di studenti ai quali sono iscritta c’è un frenetico scambio di appunti e registrazioni fra studenti che non hanno potuto assistere ad una data lezione, avere tutto online farebbe comodo anche a loro, o no?
Così come l’isolamento forzato ci sta forse facendo capire che non serve una scrivania dentro un ufficio affollato per lavorare bene, ci sta facendo capire anche che non serve una cattedra e quattro banchetti scassati per condividere la conoscenza. Che, spero, sia lo scopo ultimo delle nostre attività di docenti e di studenti.
Alla fine di tutto questo, forse avremo imparato che bisogna dare più soldi alla sanità e alla scuola e che è ormai necessario digitalizzare scuola, università e posti di lavoro.
Da gennaio e per alcune settimane amaranthinemess.it ospiterà una rassegna di letteratura italiana in cui si parlerà di fascismo, antifascismo e Resistenza.
Per leggere i post della rassegna di letteratura italiana, clicca sul banner qui sotto:
DISCLAIM
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- Questo post non è stato sponsorizzato dal comitato “Studenti non frequentanti incazzati”
Tra università, tecnologia e società il divario è una voragine. Il problema sta nell’idea che alcuni docenti hanno di togliere l’obbligo di frequenza delle proprie lezioni, mi sembra di sentirli:
“Rinunciare all’obbligo di frequenza e caricare i contenuti delle mie lezioni online (facilitando l’apprendimento della mia materia a chi lavora a tempo pieno e studia non con meno sudore di tutti gli altri studenti) potrebbe sminuire il mio ruolo di professore?”
Quest’anno l’emergenza sanitaria ha costretto gli Atenei Universitari italiani a ricorrere abbondantemente alla Didattica A Distanza.
Quel che è venuto alla luce, seppur con grandissimi margini di miglioramento, è che la DAD non solo è una realtà possibile ma che, per quanto non potrà mai sostituire la qualità di una lezione o di un esame in presenza, è un’opzione che favorisce largamente il diritto allo studio.
Potrebbe infatti rappresentare un aiuto prezioso per lo studente costretto a lavorare per pagarsi le tasse, per lo studente-genitore, per lo studente fuori sede che non può permettersi un appartamento nella città universitaria o che, per motivi personali, non può allontanarsi da casa, per lo studente che non riesce a gestire la pesante e comunque dispendiosa vita da pendolare, per lo studente che non può permettersi le costosissime Università Telematiche che, oltretutto, non offrono la stessa vasta scelta di facoltà che dà l’Università pubblica e ancora per lo studente diversamente abile che ha oggettive difficoltà a raggiungere l’Università…e poi, perché no, anche per lo studente che normalmente usufruisce della didattica in presenza, ma quel giorno non può essere in aula.
Ed è esattamente su queste riflessioni e su queste esigenze che nasce UNIDAD, un progetto partito da quattro studenti lavoratori del DAMS di Torino, che vuole arrivare lontano!
Presenteremo a tutti i Rettori degli Atenei italiani, al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Istruzione, a quello alle Pari Opportunità e a quello dell’Università e della Ricerca la stessa richiesta: vorremmo chiedere che, ad emergenza sanitaria terminata, la DAD venga mantenuta sempre e comunque come alternativa per tutti gli studenti che, per un motivo o per un altro, non possono essere in aula per lezioni ed esami ma che, in quanto paganti tasse, hanno diritto ad un servizio, ma soprattutto, hanno diritto allo studio come chiunque altro.
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Concordo in toto, flessibilità mentale è la parola chiave portata nelle nostre vite dalla pandemia. Ma è un lavoro difficilissimo da fare su stessi.