#ResistenzaVera |”La luna e i falò”, Pavese: un’introduzione

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Quando abbiamo parlato della prima opera della rassegna, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, il personaggio del commissario Kim ci aveva fornito un’interessante chiave di lettura per capire quale fosse la differenza sostanziale fra fascisti e partigiani: i primi combattevano per perpetrare il male, i secondi per sconfiggerlo.

Portando i concetti di bene e male su un piano più reale e politico è chiaro ciò che si proponeva di fare la Resistenza: sovvertire la società così come era stata sino a quel momento, smontare pezzo per pezzo il sistema che aveva portato a quella guerra e rimontarlo da capo, costruendolo meglio, evitando tutti i soprusi e le disuguaglianze.

 

 

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Cesare Pavese

 

Ne La luna e i falò, ritroviamo un’Italia popolare, questa volta piemontese ma, soprattutto, la ritroviamo qualche anno più tardi: la guerra è finita, la Resistenza anche. Ma ciò che la Resistenza aveva promesso non si è infine compiuto: il sistema, pare, è tornato quello di prima.

Questo è il sentimento che traspare dal racconto di Pavese, ma non solo questo: ho a lungo riflettuto se dedicare solo un post, come preventivato, a La luna e i falò o due e alla fine ho deciso per quest’ultima opzione e per un motivo preciso, ossia che temo che andare dritti al punto e parlare di come viene descritta la Resistenza e l’operato dei partigiani all’interno del libro, tralascerebbe troppi aspetti di un’opera complessa, che merita un’analisi più precisa.

Quindi oggi parliamo un po’ in generale di questo libro profondissimo, pieno di evocazioni e simbolismi e pieno, fortunatamente, anche di quello sguardo che Pavese dava al mondo, quel misto di sdegno e desiderio, di distanza insanabile e amore sconfinato.

 

– TEMPO DI LETTURA 3 MINUTI –

 

“C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”.

Questo è l’incipit de La luna e i falò ed è anche la prima preziosissima tessera di un puzzle piuttosto intricato che Pavese costruirà per le prossime 200 pagine.

La voce narrante, Anguilla, è un orfano adottato da una famiglia di braccianti al solo scopo di percepirne l’indennizzo e di avere più forza lavoro in casa. Cresce in una famiglia che famiglia non è e che ad un certo punto lo abbandona, va a vivere presso un’altra comunità di braccianti e poi, dopo vari avvenimenti, scappa in America.

Nell’incipit Anguilla ci racconta del suo ritorno. Non è un ritorno per restare, s’intenda, è un ritorno di passaggio, spinto quasi da una curiosità macabra di vedere cosa ne è stato del posto in cui aveva vissuto da piccolo, dopo il fascismo, dopo la guerra.

Quel posto lo ritrova e con lui anche Nuto, suo amico d’infanzia, che da quel paese non si è mai mosso. Nel brave viaggio di dantesca memoria che è La luna e i falò Nuto sarà il nostro Virgilio.

 

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Nuto è un personaggio sul quale vale la pena di spendere qualche parola: Nuto è un Anguilla che non se n’è mai andato perché, al contrario di Anguilla, lui appartiene a quel posto.

Anguilla no, lui non appartiene a niente e ha vissuto in un posto, l’America, dove nessuno ha una lunga storia o delle radici;  l’America è un posto in cui si è tutti superstiti di una qualche esistenza precedente, si è tutti di passaggio e insieme in cerca di un posto in cui restare.

La seconda tessera del puzzle è proprio questa: l’Italia, con tutte le sue contraddizioni è ritratta in modo espressionista, a tratti irriconoscibile, a tratti sfuggente, la riconosci, fra le pennellate, ma non sai se riesci a cogliere pienamente il senso del quadro che ti sta davanti.

L’Italia opposta all’America, con i suoi spazi sconfinati che ti fanno sentire piccolissimo, la sua mancanza di radici, di tradizioni, e l’Italia così radicata in se stessa, nelle proprie credenze eppure anche così divisa, così profondamente eterogenea.

 

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“Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch’io come lui, non bastava che gli parlassi così di Gaminella (nome della cascina in cui ha vissuto Anguilla e dove ora vive Cinto, ndr). Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano così. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l’avessi accompagnato nei beni (le terre coltivate, ndr)?”

Anche Cinto è un personaggio chiave de La luna e i falò: è un orfano, con una gamba storpia, che vive con Valino, il bracciante che ora si occupa della cascina presso cui aveva vissuto Anguilla. Cinto è insieme una proiezione autobiografica di Anguilla e un perfetto simbolo di quella classe subalterna che sopravvive nelle campagne piemontesi del dopoguerra.

E qui troviamo una nuova tessera: le disuguaglianze sociali, le aspettative di cambiamento che erano state affidate alla Resistenza e poi la delusione, la rassegnazione al fatto che nulla cambia.

La Resistenza ha vinto, eppure esistono ancora i Valino e i Cinto che non posseggono nulla, che si spaccano la schiena a coltivare la terra d’altri e ne ricavano lo stretto indispensabile per non morire di fame.

 

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Anguilla si affeziona a Cinto, rivede in lui se stesso. Nuto gli dice di non illuderlo, di non raccontargli nulla del mondo là fuori, di come potrebbero essere diverse le cose e invece Anguilla continua a parlargli, gli compra un coltellino che per Cinto diventa quasi un amuleto e infine, anche a causa di un dolorosissimo fato, riesce a condurlo fuori da Gaminella e da quel circolo vizioso dell’esistenza.

 

 

“E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che la superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Un vecchio come il Valino non saprà nient’altro ma la terra la conosceva.”

La luna e i falò, sono le credenze popolari, le piccole scaramanzie che guidano la vita contadina: mentre Anguilla le deride, adesso, Nuto le rispetta profondamente e porta in sé quella che sembra una contraddizione ma forse non lo è, ossia credere nella ragione, nella giustizia sociale ma al tempo stesso credere che se tagli un pino con la luna piena i vermi ne faranno marcire il legno.

I falò servono a garantirsi una buona stagione dei raccolti, per esempio – e questo teniamolo a mente, perché ci servirà dopo.

La comunità di campagna che Pavese ci descrive – e che è forse emblema dell’Italia tutta – è un posto fermo in se stesso, in cui non cambia mai nulla e se cambia, non cambia in meglio.

Magari c’è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina – e un Nuto, un Canelli, una stazione, c’è uno come me che vuol andarsene via e far fortuna – e nell’estate battono il grano, vendemmiano, nell’inverno vanno a caccia, c’è un terrazzo – tutto succede come a noi. […] Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, dànno il grano all’ammasso, le ragazze fumano – eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato.

 

la luna e i falò cesare pavese

 

Non ci si accorge neppure che quello che accade è sempre lo stesso.

Una cosa soprattutto non cambia: la divisione sociale fra ricchi e poveri, fra quelli che ce la fanno e quelli che no.

Prima vi dicevo del dolorosissimo fato di Cinto, che, pur nella sventura, lo tira fuori da tutta quella miseria: un giorno la Madama, la padrona della terra coltivata da Valino, va a Gaminella per spartirsi il raccolto e per lui e la famiglia lascia ben poco. Lui è esasperato, se la prende con la moglie, la prende a calci e la uccide. Poi inizia a chiamare Cinto che capisce e non si fa trovare. Continua a stringere quel suo piccolo amuleto regalatogli da Anguilla mentre Valino dà fuoco alla tenuta e poi, presa una corda, va ad impiccarsi nel vigneto.

Nelle campagne piemontesi del dopoguerra, davvero i braccianti si uccidevano dalla disperazione.

Da gennaio e per alcune settimane amaranthinemess.it ospiterà una rassegna di letteratura italiana in cui si parlerà di fascismo, antifascismo e Resistenza.
Per leggere i post della rassegna di letteratura italiana, clicca sul banner qui sotto:

giorno della memoria rassegna di letteratura italiana

 

In un bell’articolo di Italo Calvino su La luna e i falò, viene portato in evidenza l’interessa di Pavese per la ricerca etnologica e soprattutto le sue letture circa i sacrifici umani rituali.

Anche questo è un tassello: tutta questa morta è portatrice di significato.

Il quarto appuntamento con la rassegna di letteratura italiana su fascismo, antifascismo e Resistenza finisce qui.

Nel prossimo appuntamento vorrei parlarvi di un personaggio che oggi ho volutamente omesso: Santina

Santina è una bellissima bimba bionda quando Anguilla è un ragazzino e lavora come bracciante. Poi lui va via, abbandona il paese, si rifà una vita in America e, quando torna, cerca notizie, fra gli altri, anche di lei.

Ma Santina non c’è. Né tutta la famiglia presso la quale viveva. Che fine hanno fatto le due sorelle maggiori, Irene e Silvia? E il padre, e la madre?

 

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Ci vediamo qui sul blog, fra due martedì con la storia di Santina. Vi aspetto!

 

 

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  • Questo post non è stato sponsorizzato dal comitato “Braccianti agricoli facinorosi e piromani”

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