La morte di Murat Idrissi | La disperazione degli altri

La morte di Murat Idrissi
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La morte di Murat Idrissi di Tommy Wieringa è un viaggio che porta indietro.

Due ragazze olandesi di origini marocchine fanno un viaggio in Marocco e al loro rientro si portano dietro il pesante, ingombrante, nauseabondo bagaglio della povertà, della miseria, dell’arretratezza, di tutto quello che hanno avuto la fortuna di non vivere grazie al viaggio fatto anni prima dai loro genitori attraverso l’Europa. 

 

tommy wieringa la morte di murat idrissi
L’autore, Tommy Wieringa

 

Ma alla luce di questa grande fortuna che le due ragazze sono ben consapevoli di aver avuto, quanto sono disposte a dividerla col prossimo? Quanto sono disposte a condividere la fortuna, la ricchezza, in benessere, l’accesso e la (quasi) appartenenza ad una società e ad un’economia solida, praticamente inscalfibile?

 

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“A volte si rifugiavano nei McDonald’s, al fresco. Il mondo che conoscevano, il wi-fi gratis.”

Le due protagoniste de La morte di Murat Idrissi, Ilham e Thouraya, vivono in un limbo culturale

Le due ragazze, nate e cresciute in Olanda, sono perfettamente integrate nella società olandese: il progresso tecnologico, l’indipendenza, la disinibizione, fanno parte di loro. Ma vivono dentro delle famiglie marocchine, madri e padri nati e vissuti in Marocco che un giorno hanno intrapreso un viaggio per raggiungere la fiorente, vecchia Europa.

Il loro è uno sguardo insolito su entrambi i mondi in bilico sullo stretto di Gibilterra: di là la povertà insopportabile, temibile perché contagiosa, da cui si è già fuggiti una volta e alla quale non si vorrebbe mai tornare; di qua il progresso e il benessere, gli shorts, lo smalto per le unghie e il sesso occasionale, eppure non sentirsi completamente parte di, non sentirsi del tutto uguale agli altri.

 

tommy wieringa la morte di murat idrissi

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Le catapecchie erano costruite con materiale deperibile, legno, plastica – facile preda di tempeste. Le lamiere dei tetti erano tenute ferme da pneumatici, blocchi di pietra, tajine rotte e televisori. Le capanne erano addossate le une alle altre, Ilham gettò una rapida occhiata dentro. Come vivevano? Come diavolo potevano vivere in quelle condizioni?

 

Ma quel Marocco in cui sono andate in vacanze è sporco e soffocante, ma è sopportabile. È l’altro Marocco, quello che temono di portarsi sempre dentro, che non riescono a tollerare:

 

È il mondo di sua madre, un mondo che lei non riesce ad accettare. La deprimono le formule mormorate in fretta ogni volta che si parla di morte, davanti a certi presagi. Tutti quei divieti. L’infinità di paure che sua madre mette a tacere con gli scongiuri. Le cose che non puoi dire, non puoi pensare, non puoi fare. Sua madre è una contadina, è andata all’aeroporto a dorso di mulo, come dice Thouraya; padroneggia in parte la nuova lingua, in una certa misura è indipendente, ma è inutile combattere contro la sua mentalità primitiva – risponderà sempre che sua figlia è una sfacciata e che le ragazze sfacciate finiscono male.

 

E ancora, guardando delle famiglie marocchine che transitano alla frontiera:

 

Ilham si vergogna per loro, per il loro aspetto disordinato, per la loro africanità – sembrano così fuori luogo sul continente dove hanno appena messo piede.

 

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“Avevano cominciato la giornata […] riuniti in un complotto per portare Murat dall’altra parte dello Stretto”

Lo Stretto di Gibilterra è una lingua di mare fra due lembi di terra che si protendono l’uno verso l’altro. Sono vicinissimi eppure appartengono a universi lontani. Da un lato, l’Africa, dall’altro, l’Europa.

Sul finire del loro viaggio in Marocco, Ilham e Thouraya vengono coinvolte nella fuga di Murat Idrissi dalla povertà in cui è nato: un comune conoscente li mette in contatto e fa in modo che le due ragazze accettino di nascondere Murat nel vano porta bagagli della loro auto e di portarlo con loro, clandestinamente, in Europa.

Le ragazze, soprattutto Ilham, non vorrebbero. Poi, un senso di colpa, una certa eco di un viaggio che non hanno affrontato in prima persona ma che atavicamente si portano sulle spalle le convince.

 

Se i suoi genitori non avessero osato fare la traversata, forse sarebbe stata nelle stesse condizioni di quella donna in ginocchio (la madre di Murat Idrissi che le prega di aiutare il figlio, ndr), di quella famiglia disperata che odorava di povertà. Un amaro senso di colpa le montò dentro – lei, ingrata, che dalla vita aveva avuto tutte le possibilità e ora le negava ad un altro.

 

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Murat Idrissi, ce lo dice lo stesso titolo del libro, non sopravviverà a quella traversata, ma non è questo il punto. Il ruolo di Murat Idrissi all’interno del romanzo è quasi più importante da morto che da vivo.

Da morto, Murat Idrissi, è più ingombrante e insopportabile che mai.

 

 

“No, non ha paura. Ha fiducia in Allah.”

Murat Idrissi affronta la sua traversata con serenità impavida, credendo fortemente nel suo dio e nella fortuna che lo aspetta in Europa.

Gli chiedono cosa si aspetta di trovare in Olanda, e la risposta è dolorosa nella sua banalità: un lavoro, dei soldi per vivere una vita dignitosa. Niente più baracche e televisori rotti abbandonati sul ciglio della strada.

Ciò che viene rappresentato con chiarezza millimetrica ne La morte di Murat Idrissi è il confine. Non un confine geografico né politico,  non una frontiera, una montagna da scalare o un canale da attraversare a nuoto. È il confine fra il dentro e il fuori.

Il dentro è il sistema capitalistico, un sistema economico che garantisce  benessere, ricchezza e l’ossessione per la ricerca di un maggior benessere e di una maggior ricchezza. Dobbiamo guadagnare di più, dobbiamo comprare di più, dobbiamo essere più produttivi, dobbiamo mettere in moto l’economia.

 

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Photo by Nick Fewings on Unsplash

 

Il fuori è tutto ciò che vive ai margini di quel sistema, tutto quello che non riesce a ricevere neppure i raggi più tiepidi del benessere e della ricchezza. Fosse tutto qua, sarebbe ingiusto ma casuale.

Ciò che trasforma il casuale in crudele è la ferma volontà di chi vive dentro di non condividere nulla con chi vive fuori. E se chi vive fuori rivendica un qualche diritto, chiede di partecipare di benessere e ricchezza, chiede perché tu sì ed io no?, allora va fermato, va annegato, va rinchiuso, va soffocato.

La nostra ricchezza è solo nostra, anche se non ce la siamo né guadagnati né meritati. È stato il caso a farci nascere dentro. Avremmo potuto essere fuori. Avremmo potuto essere il fardello olezzante che una parte del mondo si porta dietro, avremmo potuto essere il medicante che ci infastidisce, il ladruncolo che ci borseggia in metro, avremmo potuto essere la diciassettenne costretta a battere l’angolo della strada di quel bel quartiere coi gerani ai balconi, avremmo potuto essere la madre che non riesce a dar da mangiare al figlio.

Avremmo potuto essere quelli che annegano, ma in fin dei conti non lo siamo e quindi, va bene così.

 

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DISCLAIM

  • Le immagini presenti in questo post sono scaricate da Google immagini o Unsplash
  • Il libro La morte di Murat Idrissi, di cui parlo in questo post, mi è stato inviato gratuitamente dalla casa editrice Iperborea

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