Il ritorno di Conrad | La donna e quel suo peccato originale

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All’inizio di novembre ho preso in prestito in biblioteca Il ritorno di Conrad per prepararmi all’evento blogger organizzato da Nutrimenti edizioni per la presentazione de Il secondo ritorno di Giuliano Gallini (di cui vi ho parlato qui). Il secondo ritorno è una riscrittura de Il ritorno di Conrad e, avendolo conosciuto di sfuggita all’università solo perché era stato definito in aula un racconto atipico di Conrad ho deciso di leggerlo per poter fare un confronto con la riscrittura.

– TEMPO DI LETTURA 3 MINUTI –

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Questa foto è di Elena Spadafora. Se vuoi utilizzarla, prima chiedi: amaranthinemess@gmail.com

Il ritorno di Conrad è diverso da tutto quello che l’autore aveva scritto sino a quel momento: abbandonate le navi e il terrore della bonaccia che inchioda le navi a vela in un punto e chi le smuove più, Conrad, probabilmente sotto l’influenza (o forse meglio dire sotto l’effetto di una certa aspirazione alla scrittura di Henry James) si dedica alla scrittura di un breve racconto che parla di borghesia: una sera, in una casa, e sulla terra ferma.

È molto importante mettere a fuoco la classe sociale: stiamo parlando della borghesia vittoriana.

La regina Vittoria ha avuto un regno lunghissimo, durato dal 1837 sino al 1901, anno della sua morte. E il periodo vittoriano è stato un periodo di luci e ombre (forse più ombre, dipende dal punto di vista…): c’è stata l’espansione imperiale e un gran dare di pacche sulle spalle fra W.A.S.P (white, Anglo-Saxon, protestant) ma i poveri, le donne, i colonizzati non è che ne abbiano tanto gioito, di quel periodo.

Una delle caratteristiche per cui viene ricordato il periodo del regno di Vittoria è l’ipocrisia, l’ipocrisia che scaturisce da un insostenibile e inarrivabile standard di moralità e irreprensibilità. Bisognava essere perfetti, seguire alla lettera la morale comune, altrimenti non si poteva essere considerati gente rispettabile.

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Ma siamo umani, e siamo imperfetti, così come lo erano anche i vittoriani che in non poche occasioni decisero di nascondere la polvere sotto il tappeto: l’amore extra-coniugale c’era, lo sapevano tutti, bastava non parlarne in giro. C’erano le prostitute (e gli uomini che le pagavano), c’era l’alcol, c’era il gioco. I bambini poveri morivano agli angoli di strada o diventavano dei piccoli precoci criminali pur di sopravvivere. E i borghesi andavano in Chiesa a pregare per il prossimo loro…

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Una scena di Oliver Twist di Charles Dickens, in cui Oliver, all’interno della casa dei poveri in cui vive, chiede ancora un po’ di cibo per sé e i propri compagni. [fonte: Wikimedia]

Il ritorno di Conrad è del 1898. Il regno di Vittoria dura ormai da parecchio tempo, la regina ha quasi ottant’anni (che per la fine dell’Ottocento è già una veneranda età) e tutti si preparano alla fine di un’epoca. L’incertezza per il futuro influenza moltissime opere scritte in quel periodo. 

La coppia borghese di cui si parla ne Il ritorno di Conrad sono gli Hervey. Conducono esattamente quel tipo di vita che ci si aspetta da un borghese di quel periodo: feste, mondanità, mantenimento del decoro e delle apparenze a qualsiasi costo.

Alvan Hervey, il marito, è perfettamente inserito all’interno di una massa borghese informe che Conrad ci descrive spietatamente sin dalle prime battute del racconto:

Tra le squallide pareti di una scala sudicia degli uomini salivano velocemente; le loro schiene sembravano tutte uguali – quasi indossassero un’uniforme; le facce indifferenti erano diverse ma in qualche modo suggerivano un’aria di famiglia, come i volti di un gruppo di fratelli che per prudenza, dignità, disgusto o preveggenza si ignorano risolutamente l’un l’altro; e i loro occhi, vivaci o tondi; gli occhi che fissavano scalini polverosi, gli occhi marroni, grigi, blu, avevano tutti lo stesso sguardo, vuoto e raccolto, soddisfatto e superficiale.

Fuori dall’uscita sulla strada, si sparpagliavano in tutte le direzioni, allontanandosi velocemente l’uno dall’altro con l’aria frettolosa di uomini che scappino da qualcosa di compromettente; dalla familiarità o dalle confidenze; di qualcosa di sospetto e tenuto segreto – come la verità o la peste.

 

Il ritorno, Joseph Conrad, ed. Il sole 24 ore (2012), trad. [non ho il libro sotto mano, appena posso inserisco il nome]

Il ritorno di Jospeh Conrad

Questa foto è di Elena Spadafora. Se vuoi utilizzarla, prima chiedi: amaranthinemess@gmail.com

Il binomio che Conrad trascina per tutto il racconto è quello apparenza/finzione – realtà. La realtà è una cosa che non riguarda quegli uomini e quelle donne. È un qualcosa per la quale provare paura, anche un po’ di ribrezzo. La natura delle cose non importa e non è conveniente parlarne, ciò che veramente importa per continuare a vivere tutti felici e tutti insieme è mantenere le apparenze.

Era una cerchia molto affascinante, sede di tutte le virtù, dove non ci si accorge di niente e dove tutte e gioie e i dolori vengono prudentemente attenuati al livello di diletti e fastidi. In quella regione serena, poi, dove i sentimenti nobili sono coltivati con profusione sufficiente a dissimulare lo spietato materialismo di pensieri e aspirazioni, Alvan Hervey e sua moglie trascorsero cinque anni di prudente beatitudine non offuscati da alcun dubbio sulle qualità morali della loro esistenza.

 

Il ritorno, Joseph Conrad, ed. Il sole 24 ore (2012), trad. [non ho il libro sotto mano, appena posso inserisco il nome]

Una sera Alvan Hervey torna a casa e non trova la moglie. Trova invece un suo biglietto in cui gli dice che è andata via. Quella sua moglie perfetta, quella sua perfetta dotazioni di borghese vittoriano ha preso una decisione, ed è andata via.

In una scena splendida che richiama e riprende la prima scena degli uomini che salgono le scale, Conrad ci descrive la reazione di Alvan: è dentro la stanza da trucco della moglie, circondato da specchi, così che non è solo Alvan a reagire al biglietto, ma è una moltitudine di uomini, riflessi negli specchi, ad apprendere che la moglie è andata via di casa.

Con chi poi? Con un poeta, un giornalista, uno che non è inserito nella loro perfetta cerchia borghese né per appartenenza sociale, né per aspetto fisico. Come è possibile che la realtà fittizia in cui Alvan si è crogiolato per tutta la sua vita, stia andando in frantumi e stia mostrando la brutta realtà angosciante che vive al di sotto? Come si può vivere al di fuori della loro perfetta finzione?

 

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Poi il (primo) colpo di scena: la moglie torna. Torna indietro, lui la sente bussare alla porta, salire le scale. Lei è sfuggente, non dà spiegazioni, non si sa perché sia andata via né perché sia tornata.

Dal ritorno della moglie in poi, il racconto è un tormentatissimo dialogo fra i due o fra Alvan e se stesso su ciò che c’è da fare (mantenere le apparenze ovviamente) e su come andare avanti.

Ogni tanto lui sembra abbandonarsi a comprensibilissime reazioni umane come la rabbia, la gelosia, che vengono però subito ricacciate dentro. Non è neppure il possibile tradimento a farlo stare così male, è proprio la perdita della finzione matrimoniale che lo ferisce più di tutto.

In un certo senso, anche in questo libro (immagino del tutto inscosciamente) la donna è portatrice di conoscenza, di una conoscenza maligna, peccaminosa, che spazza via l’idillio: vi ricordate quando, la settimana scorsa, abbiamo parlato di Corpo felice di Dacia Maraini e dell’affronto di Eva? Ecco: la donna persevera nel suo peccato originale anche qui, anche all’interno della borghesia vittoriana.

Del secondo colpo di scena non vi parlo perché è proprio l’ultimissima parte del racconto e preferisco non rovinarvelo.

Alla presentazione de Il secondo ritorno di Giuliano Gallini, ci eravamo interrogati sul perché del ritorno della moglie e io mi ero data questa spiegazione: perché fuori, al di fuori di quella prigione dorata, per lei non c’è nulla.

Sarà vero? Non lo so, possiamo solo sparare ipotesi a raffica sulla conclusione di questo racconto molto bello e molto significativo per il periodo in cui è stato scritto e che ha forse ingiustamente ricevuto tante critiche (anche dallo stesso Conrad che dichiarò di odiarlo).

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Il peccato originale, Rubens e Brueghel il Vecchio (1616 circa)

 

DISCLAIM

  • Per scrivere questo post ho consultato i seguenti saggi critici: Birdseye, L. (1977). “THE CURSE OF CONSCIOUSNESS: A STUDY OF CONRAD’S “THE RETURN”. Conradiana, 9(2), 171-178. Retrieved from http://www.jstor.org/stable/24633955 e Kingsbury, C. (2000). “THE NOVELTY OF REAL FEELINGS”: RESTRAINT AND DUTY IN CONRAD’S “THE RETURN”. Conradiana, 32(1), 31-40. Retrieved from http://www.jstor.org/stable/24635061
  • Questo post non è sponsorizzato da nessuno degli scrittori morti o viventi citati.




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