Quando ho finito di leggere Chi sta male non lo dice di Antonio Dikele Distefano (circa 8 ore dopo avere iniziato a leggerlo), non ero contenta.
Il libro parla di due ragazzi molto giovani e dei loro tormenti – amorosi e non. Lo stile di scrittura è discutibile e i temi profondi, importanti, che pretende di contenere in realtà sono affrontati in maniera molto sommaria.
C’è però qualcos’altro che non mi fa rifiutare totalmente quanto ho letto. Perché se escludiamo per un attimo l’analisi formale del testo e ci soffermiamo sul libro in quanto fenomeno del sociale e del culturale allora forse Chi sta male non lo dice ha qualcosa da dirci.
– TEMPO DI LETTURA 4 MINUTI –
Mi sono avvicinata a questa lettura con spirito forse un po’ da esploratore WASP che va alla volta dell’esotico: volevo leggere altri autori afro-italiani (dopo Igiaba Scego) e ho dato per scontato che qualsiasi scrittore italiano di origini africane lo fosse. Sbagliato.
La lezione che ci dà Distefano con questo libro è che davvero chi nasce e cresce in Italia è italiano, al di là di origini vicine e lontane, substrati culturali e lingue parlate in casa.
Chi sta male non lo dice è un libro del 2017 in cui Antonio Dikele Distefano ci racconta di due ragazzi, Yannik e Ifem. Entrambi italiani figli di migranti, incrociano le loro esistenze per un periodo, si innamorano, intrattengono conversazioni sul loro modo di vedere il mondo.
Ci sono molti temi che popolano lo sfondo di queste conversazioni: c’è il fatto di essere giovani, c’è la droga, c’è l’emarginazione, la questione delle periferie, c’è la lotta per non essere più emarginati. Ma non c’è Africa.
E quando c’è, l’Africa, è un lontanissimo richiamo di un’origine anagrafica e individuale, non è mai politica, non è mai storia collettiva.
In questo senso Distefano mi ha dato una bella lezione e mi ha spinto a riflettere che anche quando è mosso da volontà di inclusione lo stereotipo costringe espressioni delle pluralità dell’essere umano e dell’artista dentro delle caselle minuscole, preimpostate, assolutamente inadatte ad un approccio open-minded alla letteratura.
Il problema dello stile e di tutto quello che ci sta dietro
Come dicevo in apertura: lo stile in cui il libro è scritto non mi è piaciuto, ma questa è una valutazione personale e importa davvero pochissimo ai fini della nostra indagine. In questo caso credo che il perché sia più importante del come.
Lo stile con cui Chi sta male non lo dice è scritto è uno stile che oserei definire aforistico. Ogni frase è un piccolo gioiello rococò incastonato accanto ad altri mille piccoli gioielli rococò. C’è una sovrabbondanza di richiami al patetico (in senso antico…) che porta, per forza di cose ad un appiattimento, ad un annullamento.
Se tutto è una frase ad effetto allora più nessuna frase sarà ad effetto.
Però anche per questo ci sarà una spiegazione, mi dico. E allora cerco un po’ in giro e trovo alcune interviste, un paio di articoli, una pagina Wikipedia.
Da questa breve ricerca viene fuori che Antonio Dikele Distefano è anche un rapper e da una delle interviste viene fuori anche un particolare rilevante, una personale weltanschauung dello scrittore: alla domanda Che cosa vuoi fare da grande? lui risponde Diventare ricco.
Così mi do questa spiegazione, forse banale, superficiale e parziale ma plausibile: Antonio Dikele Distefano appartiene ad un coro sociale, ad un gruppo di giovani (uomini, soprattutto) che in modi molto eterogenei appartengono alla periferia e all’emarginazione esistenziale e che, da poco tempo a questa parte, hanno deciso di parlare – o forse lo hanno sempre fatto e solo da poco tempo a questa parte noi ci siamo decisi ad ascoltarli.
Negli ultimi anni mi sono un po’ avvicinata a quel fenomeno artistico e sociale che è la musica trap e sotto la crosta di violenza ostentata, spavalderia, politicamente scorretto e qualunquismo ho visto una fotografia. È la fotografia del nostro momento storico, è la rappresentazione che ne danno gruppi sociali che spesso ignoriamo e snobbiamo. E c’è una cosa che collega più o meno tutte le espressioni trap: l’anelito alla ricchezza.
Nei loro pezzi i soldi sono la chiave di lettura di un’esistenza, sono il deus ex machina che cala dall’alto e che ti risolve la vita.
So che ve lo aspettereste da me, ma no, non li biasimo affatto. È il modo in cui li ha cresciuti questa società. Ci sono i ricchi che stanno bene e anche se possono avere vite di merda hanno anche la possibilità di tirarsene fuori, di cambiarle. E poi ci sono i poveri – etichetta che negli ultimi decenni ha assunto un significato sempre più ampio e inclusivo – che non sono necessariamente senzatetto o girovaghi, possono anche avere un tetto sopra la testa e un pezzo di pane in tavola tutti i giorni, ma non hanno possibilità.
La possibilità di andare via, di muoversi, di fuggire, di tornare, di cambiare idea, di pretendere di più, di avere una voce.
Si torna al discorso su passaporti deboli e passaporti forti fatto in merito a La linea del colore di Igiaba Scego: se ci stacchiamo per un attimo dal concetto di spostamento fisico e geografico e pensiamo allo spostamento sociale ci accorgiamo che anche lì ci sono diversi tipi di passaporti e che non tutti abbiamo accesso alle stesse cose.
E la ricchezza è un passaporto forte, non trovo nulla da obiettare.
Così, tornando a Chi sta male non lo dice, intuisco che forse, qui, lo scopo ultimo non è l’analisi ma la testimonianza, e in questo senso Antonio Dikele Distefano è un testimone. Ci racconta cosa ha visto e lo fa con rime ridondanti che provano ad ogni costo a strapparci lacrime e sorrisi, che provano a far identificare molti ragazzi e ragazze con un vissuto comune e familiare.
E quindi il suo stile potrà anche non piacere, ma non importa, perché ci racconta comunque un pezzo di storia fuori dalla nostra visuale.
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